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Il Moderno: una “crosta” per eredità?

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A margine, assaggi per una revisione del “sacro” come bene comune.

 

Daniela Negri 

 

 

Pongo mano ad alcune riflessioni, un po’ prendendo a incominciamento il libello “Sono io che non capisco” del 2013 di Maurizio Pallante e un po’ bighellonando nella campagna delle mie letture.
Alla pagina quarantuno, dunque, con il titolo “Conservazione e progresso” trovo dispiegarsi con chiarezza estrema l’architettura genealogica della contrapposizione tra i due archi-modi di visione politica, ma prima ancora culturale, che sogliono vedersi il più delle volte a viaggiare su binari divergenti se non opposti, con direzione contraria allorquando li si consideri come nomi, non come aspetti aggettivali. Quella di Pallante è l’ennesima accusa, dopo le tante che non sono emerse all’attenzione editoriale e quelle altre invece che sono emerse con notevole peso storico: di P.P. Pasolini per es., di Raffaele La Capria, e ancora prima di Leon Tolstoj, anche ripreso negli scritti di La Capria… e di altri che non sto a citare.
Se Raffaele La Capria, nel suo libro “La mosca nella bottiglia” uscito nel 1996, declina l’una via e l’altra in semantemi (cioè: nuclei semantici, segnali linguistici significanti) diversi da quelli di Pallante, e ciò non toglie nulla alla loro pregnanza nel significato, e comunque così si raggiunge di sicuro il lettore comune.
I due semantemi di La Capria sono: “il buon senso/ il concettualismo moderno”. La Capria denuncia quello che non si può dichiarare a voce alta: l’arte non è più un bene comune ma, vittima di una spirale di totale interesse-oblio commercial-finanziario, deve ora diventare, è diventata nel contemporaneo, il luogo dell’incomprensione, dell’umiliazione dell’intelligenza e della impostura del gusto. L’arte non ha più come suo referente pubblico la gente comune, ma un ristretto gruppo di “competenti” che, per dirla appunto col senso comune e nella forma più immediata: “se la suona e se la canta” per i propri interessi speculativi. Essi però fanno capo, così pare, a un’atroce costrittiva “macchina politico-finanziaria” che ha come fine la distruzione delle regole naturali comuni a tutti i viventi, – piante comprese, aggiungo qui -: la consapevolezza dei materiali, la precisione tecnica intrinseca e la bellezza. E così addita anche il prof. Pallante nel suo libello. Questa sorta di tabula rasa arriva ormai a toccare la vita umana, ritorta e distorta in esperimenti estremi, con l’assurda pretesa di liberarci dai limiti naturali. Ma pensiamoci un po’: davvero quelli naturali sono dei limiti e non piuttosto delle opportunità diverse per un lento e naturale “andare oltre”? Non sarà che siamo caduti, vittime affatate, in un circo delirante di manager dell’industria culturale globalizzata?
La Capria ci rimanda a Tolstoj e alla sua feroce presa di posizione contro la modernità, in: “Che cos’è l’arte?” Il rimando è prezioso per correlare a questo discorso un movimento di pensiero contemporaneo non del tutto distante. In Russia, nei circoli filosofico-politici della Mosca odierna, a partire dalla Caduta del Muro e ben da presso la cerchia dello stesso Putin, pare si sia attivato un ripensamento che vorrebbe liberare dalle incrostazioni della modernità la politica, ma sopra tutto la cultura tutta, attraverso una riscoperta della Tradizione, sulla quale ha molto da dire un nostro filosofo molto vituperato, e molto male accolto in patria e invitato così a far da profeta in altri paesi: Julius Evola. Insieme con le opere di Guénon, il suo “Cavalcare la tigre” è stato tradotto di recente in russo. Il traduttore è il Prof. Alexander Dugin politologo e filosofo molto attento alle correnti di pensiero minoritarie ma forti del Novecento europeo, J.Evola, Guénon.
Sto citando Evola è vero, ma se di Dugin si porta attenzione alla Visione del mondo nella sua articolazione storico-politica invece nella Tradizione evoliana si evince non altro che una parte essenziale della mia cultura: quella del fuoco e della narrazione-, e delle mani e del canto, e del cuore e del sole, insomma di quella natura spirituale una volta trattata religiosamente, quanto timorosamente; quella natura concreta e tattile accettata con la venerazione che si addice agli dèi imprevedibili, bizzarri e potenti.
Riporto qui alcuni brani indicativi da una intervista al prof. Dugin, sul suo tentativo estremo di cercare una Quarta Teoria Politica fuori dei totalitarismi del liberalismo, fascismo e comunismo:
“L’essenza della verità è di tipo sacro. Oggi domina il nulla, ma non è possibile che il nulla esista. Il nulla è solo una forma esteriore, al cui interno arde il sacro. E’ proprio quando è saltata la trasmissione regolare delle forme del sacro che appare quello che io chiamo Soggetto radicale, vale a dire l’uomo della Tradizione gettato in un mondo senza Tradizione. [….] Paradossalmente il tradizionalismo oggi è più importante della stessa Tradizione. […] Noi non vogliamo restaurare alcunché, ma far ritorno all’Eterno, che è sempre fresco, sempre ‘nuovo’; questo ritorno è dunque un procedere in avanti, non a ritroso”
(cfr. sul web l’intervista a c. di Eduardo Zarelli, in: <Libri. ”La quarta teoria politica” di Dugin: una filosofia per un nuovo inizio>, Edito il 14 luglio 2018 da G. Sessa).

Chiaramente qui nel citare Jiulius Evola si guarda a una sua agguerrita prospettiva di difesa della Tradizione contro i livellamenti dell’ordine di felicità materiale promesso dalla modernità. Si guarda agli elementi specifici dello spirito, del concetto di persona nell’accezione antiindividualistica e filologica, della bellezza come grande stile nel senso Neatzschiano –.
Si è comunque persa nel contemporaneo l’educazione sociale al sentire bene, al pensare giusto e al produrre bello. Il sentire bene che è oramai non solo ferito, ma del tutto estromesso dal diritto a esserci e a parlare, assoggettato come un cane al guinzaglio all’asse veloce e cieco della tecnologia. Ma ci si chiede come perseguire un sentire di nuovo semplice, chiaro, lento, formato, dove la cosa e il nome cercano per quanto possono nelle arti come nelle comunicazioni interpersonali, una via di intesa e di unificazione; pur riconoscendo che l’intesa fra nome e cosa è una strada molto accidentata che non potrà mai incontrarsi in una coincidenza esatta, ma soltanto e sempre mediata in una sorta di patto. E questa mediazione la nostra Tradizione l’ha chiamata con i nomi: regole, tecnica, artigianato, lunga formazione, magistero dei “padri”, impegno fisico protratto, lo splendore di una forma di immediata ricezione.
Ci sono stati altri modi per definire questi tratti che delimitano la vera arte dalla falsa arte, e anche permettono di riconoscere senza dubbi un artista da un furfante, come permettono di sceverare un uomo da un fantoccio. Di fatto al centro di tutto c’è, come è leggibile fra le righe nel libello a cui mi riferisco, l’assoggettamento a un’antica dea, ancora vigente nel sottosuolo della nostra coscienza, la Necessità. La Tyche dei greci arcaici: l’ineludibile caso, o Anánke, la Necessità. Il cammino della Necessità vuole che si proceda per tempi opportuni verso una chiusura parziale di questa epoca del Moderno per riscoprire che l’uomo ha già tutto in sé e per sé sia del bello che del giusto che ha cercato altrove… Occorre cercare in sé, non fuori. Occorre richiamare le potenze del corpo e del pensiero, il campo naturale dove si posiziona la nostra identità, e fare sacrificio, offrire in un’azione inviolabile la loro potenza strettamente unita, alla terra. La terra: quella cosa viva che sola, a richiesta e con le opportune cure, può donare in cambio vita, salute, gioia. Il sacrificio alla terra non è mai senza ritorno né senza senso: è il rito quotidiano del volgersi al centro della fabbrica dell’ossigeno e dunque del respiro, alla potenza davvero globale del buon cibo e dunque del giusto sostegno materiale, al cuore della salute mentale e perciò dell’armonia e della gioia. Vuole dire “scambiare” la propria potenza con la sua potenza, produttiva di salute per il corpo di sé e dei propri cari. L’unica dittatura buona, devo qui testimoniare, è la terra nel patto armonico con l’uomo. A noi sta davanti il compito urgente di articolare questo patto nel modo più equo, flessibile e duraturo, in un contesto di solidale serenità.
E proprio invocando Anánke, il discorso che sto facendo mio malgrado mi convoglia al cuore della testimonianza di un altro pensatore che, invece, nella sua imperdonabile ma ineludibile presenza fra noi, scandalizza davvero anche il padre eterno nel suo rappresentante cattolico, per osare ricostruire l’efferata dimenticanza dei filosofi antichi: che il nulla non è e ciò che è è compatto e indissolubile. Da questa dimenticanza – che è tracciata da Parmenide fino a noi – ci si è portati sulla via dell’Errore per cui le civiltà occidentali hanno al fondo un tema problematico che le accomuna tutte in ogni campo: la venerazione del cambiamento, e del nuovo come creazione dal nulla, trasformazione dal nulla in essenti e dagli essenti in nulla. Sapete tutti a chi mi riferisco e dunque taccio per evitare citazioni ridondanti.
Siamo giunti allora alla cima dell’Errore, una montagna di pensiero totalmente inutile, ma ginnastica necessaria comunque al nostro essere umani sulla terra isolata dal Tutto. Su questa cima appare che l’arte, come la vita intera ormai dell’uomo nella globalizzazione, diverranno oggetti di una totalitaria speculazione macchinica, tecnologica. Le macchine artificiali sostituiranno ogni fare umano e non umano, nell’ ipotesi programmatica di spostare i confini del terrestre oltre se stesso e conquistare la grandiosa eternità degli dei, nella delirante ricerca del nuovo e del cambiamento a ogni costo, qualsiasi danno esso produca alle generazioni a venire e alle risorse limitate del pianeta. Ma esse, le generazioni a venire per forza di cose avranno della realtà una visione diversa da questa, proposta e perseguita negli ultimi tre secoli, perché si è ormai dimostrato che anche un battito di ciglio qua può scatenare un uragano più in là nel corso del tempo e dello spazio. Il battito di ciglio che è utile politicamente oggi sarà allora ogni minimo impegno dei singoli e delle comunità guardando a quell’uragano futuro.
In relazione alla cerca della verità, della bellezza e della giustizia si può legittimamente dire che ciò che sta e dunque re-sta, permane, l’eterno cercato fuori della Terra isolata dal Tutto, è un sogno tanto radicale quanto inutile, così attesta il filosofo di Brescia. Poiché questo sogno siamo noi stessi, da sempre salvi e da sempre avviati sulla traccia di un destino di Verità; noi che non ci avvediamo, non ci siamo avveduti in tutta la nostra storia occidentale, di essere dei re convinti di vivere da mendicanti. L’eternità è consustanziale all’essere qui-ora di ogni cosa: del sasso come del fiore come dell’uomo e della donna, come degli oggetti della tecnica, come le teorie e le contro-teorie, come i sentimenti e ogni diversa sottigliezza terrena. Ogni “cosa” ha un posto nella manifestazione progressiva del Tutto nel tempo storico. Il “sacro”, cioè l’Inviolabile, è ogni aspetto e dettaglio e sfumatura del mondo nel tempo. E’ tutto ciò che si palesa come essente, anche l’uomo.
Certamente non è un discorso nuovo. Le radici sono nei Greci, e in qualche avveduto folle pensatore, come Leopardi per es., o Nietzsche, o Gentile, ma è ora giunto nella testimonianza severiniana a un rigore filosofico compatto e totalmente coerente del quale, per quanto sia stato finora indagato, non si è riusciti a infirmarne un solo rigo da parte degli allievi, pure eminenti studiosi contemporanei tutti usciti dalla scuola di Venezia.
Il filosofo perciò ci mette in guardia, con il suo discorso fondato e rigorosissimo: il cambiamento dal nulla all’essere, e viceversa, non esiste perché non lo esperiamo mai, neanche nella morte. Ciò che mano mano appare sono dei cerchi, delle visioni progressivamente diverse del Tutto.
La sottolineatura sull’importanza dell’esperienza riporta il pensiero coi piedi a terra e ci fa riflettere sulla cogenza che esso assume nel vaniloquio mediatico contemporaneo. Ci sono i cerchi dell’apparire che, come onde dello stesso mare si frangono intorno ai nostri piedi senza che noi ne possiamo cogliere Tutta l’unità, seppure possiamo testimoniarne l’immensità e la necessità di coesione. Ogni onda è diversa ma appartiene per intero allo stesso mare. E’ quello stesso, Tutto intero, in “successione” di stati. Ma una “successione”, spiega il filosofo bresciano, è tutt’altro che una “trasformazione”.
Questo discorso in cui mi sono immersa con l’arroganza di potervene comunicare almeno la portata sconvolgente, se non i tratti filosofici per i quali ben altre capacità occorrerebbero-, viene a supportare e corroborare la necessità di dare man forte ai critici della modernità. Se alcune grida rimbalzano fra i secoli e si mantengono vive nella sensibilità anche nostra, suscitando ancora pensiero e ulteriori sviluppi, esse dimostrano di avere un necessario e potente legame con il Tutto e per questa ragione assurgeranno a portatori di senso in una diversa visione di realtà e di umanità.
Se non fossi certa di questo neanche potrei tentare di scrivere una sola sillaba delle tante che ho già vergato qui, in questo intervento. Tengo a precisare: un intervento che mi vede per la prima volta della mia vita personale impegnata collettivamente in un progetto che condivido.
E d’altro canto, chi ha partecipato alla riunione nazionale SEQUS del 23 febbraio scorso avrà potuto sentire fisicamente, cioè completamente con tutti i sensi del corpo, quanto questa attesa sia immediatamente percepibile, e quasi scoppi in una intensità che oso dire smagliante, splendente. Mi riferisco ai bellissimi interventi; della prof.ssa Mieli, per esempio, sulla esperienza del prima e del dopo nella vita del bambino, della infinita catena umana femminile-infante, che fa corpo e archi-testo di ogni socialità politica in quanto contempla il primigenio rapporto democratico dell’io-tu.
Ricordo anche il bellissimo intervento del rappresentante della Coop. Bellosguardo del Cilento, un professore di lettere che ci parla della terra come un contadino parlerebbe, cuore in mano. E la presentazione fatta da Marcello Spinello della Comunità Etica Vivente di Città della Pieve, soffermatosi sull’urgenza di riproporre un’alleanza fra pensiero ed esperienza. E per chiudere, senza dilungarmi con altri riferimenti altrettanto significativi quanto questi, la proposta di “Vivere con cura”, una associazione di Capracotta nel Molise, che propone l’autoeducazione come centro del vivere eco-conviviale. Tutte realtà che sono state sviluppate nello spirito della solidarietà, dell’equità, della sostenibilità, nella riproposizione dell’economia del dono e dello scambio.
Non sto a elencarli tutti gli interventi anche per non incorrere in troppi errori e sviste sui nomi dei partecipanti, delle associazioni e dei movimenti, avendo frettolosamente appuntato a mano, ma mi auguro che vengano raccolte le documentazioni registrate in un archivio comune, per poterle riportare alla memoria quando occorresse in futuro una riflessione di confronto con se stessi e con le intenzioni originarie.
Ho di recente scoperto nell’avventura ecologista che, a macchie di leopardo, ci sta di nuovo reintegrando in modo armonico con la Terra Madre, la sperimentazione agraria ai confini di Milano, DESR parco Sud, che nel 2012 ha dato fondamento a una “filiera degli undici grani antichi” e alla riscoperta di antiche arti come quella della pasta madre, o della molatura o della macinatura a pietra. Una rivoluzione delle procedure che tornano a stare nell’ottica della cura del suolo e dei materiali, e una rivoluzione dei prodotti, di nuovo vivi, ricchi di nutrienti, sani.
Come questa altre simili esperienze di restauro ecologico stanno punteggiando la penisola di sacche di resistenza alla prosecuzione cieca dell’industrializzazione agricola di marca liberal-globalista.
Insisto a presentare queste emergenze pratiche dentro il discorso, seppure riassunte nei loro elementi essenziali, perché sento come una stringente necessità logica che il discorso del pensiero concettuale sia connesso, collegato strettamente a quello del pensiero pratico, liddove sia quest’ultimo, insieme al pensiero progettante, a fare da traino, e non viceversa imponendo regole astratte a ogni suolo e a ogni uomo, come è accaduto in Occidente.
Mi piace venire a sapere che gli agronomi prendano dai contadini le preziose notizie sulle soluzioni a certi problemi che solo localmente e nella pratica del suolo sono risolti dall’intelligenza applicata delle mani e volta a volta che si presentano.
Visto dal punto di vista di una persona radicata nel mondo contadino e poi vissuta dalla parte dei consumatori ignari e superficiali delle città, questo atteggiamento sembra idoneo a porre le radici di una inedita dignità per il lavoro gravoso della terra. Non già l’eroismo, che spesso sfora nella demagogia, ma almeno una alta dignità, un riconoscimento di diritti inalienabili di creatività e di intelligenza, che la letteratura prodotti per lo più delle classi sociali abbienti, hanno sempre ciecamente ignorato se non combattuto.
Occorre fare i conti: così si prospetta da più parti. Mi limito a due riferimenti: i debiti in sospeso che attendono di essere onorati, proposta di Armando Gnisci (cfr.: “Quattro conti, conto dei contadini, conto dei migranti, conto degli asceti, conto degli oppressi” Sallustiana, Roma 1998) e poi una vera e propria rielaborazione nella coscienza e nella storia dello sterminio progettato e perpetrato contro i contadini a favore dell’ascesa di una figura di “comodo” per le ideologie del Novecento: l’operaio. (Quante carriere si sono costruite da questo trampolino!?)
“Non mi riferisco soltanto allo sterminio dei contadini nell’Unione Sovietica, un vero e proprio genocidio – mi piace ricordarlo proprio oggi nel giorno della memoria – che ha fatto un numero di vittime doppio o forse triplo rispetto allo sterminio degli ebrei. Mi riferisco anche alla violenza – perché di una forma di violenza indubbiamente si è trattato, anche se più subdola – che è stata necessaria per deportare le popolazioni agricole dal meridione verso le fabbriche del Nord.
Era necessario farlo – ci è stato detto – perché una nuova figura epocale si era affacciata alle soglie della storia e avrebbe ormai segnato il corso dei secoli a venire: l’operaio. Nel 1938 appare il libro di Ernst Jünger che porta appunto questo titolo: Der Arbeiter, l’operaio – un libro che doveva esercitare un influsso considerevole tanto alla destra che alla sinistra dello schieramento politico europeo. Al centro del libro sta la descrizione e la teorizzazione di questa nuova figura epocale, che doveva sostituire i contadini (che a dire il vero sono appena nominati da Jünger), l’aristocrazia e la borghesia nel dominio del mondo. Tutta la modernità si colloca secondo Jünger sotto il suo segno: la tecnica – sono le sue parole – «non è che il modo in cui la figura dell’operaio mobilita il mondo.»
Ebbene: tutto ciò era falso, semplicemente falso. Questa decisiva figura epocale, che è stata esaltata, descritta, rappresentata e celebrata innumerevoli volte con amore e anche respinta con odio e disprezzo è scomparsa con la stessa velocità con cui era comparsa. Ci sono certamente ancora degli operai, ma l’operaio come figura epocale appartiene oggi al passato come il contadino di cui doveva prendere il posto. Non è facile dire quale sia la figura storica che ci sta davanti – se il tecnocrate, lo scienziato o qualche altro più oscuro personaggio digitale di cui riusciamo appena a intravedere il volto – ma certamente non sarà l’operaio.
Jakobson ha parlato, a proposito del destino tragico dei poeti russi del primo Novecento, di «una generazione che ha dissipato i suoi poeti»: noi siamo certamente una generazione che ha dissipato in pochi decenni un antichissimo patrimonio e non sa bene con che cosa sostituirlo.”
(cfr.: https://www.edizioninottetempo.it/it/news/view/i/giorgio-agamben-il-contadino-e-loperaio-discorso-pronunciato-durante-la-cerimonia-del-premio-nonino – 30/01/2018)
I letterati possono fare molto su questo versante della ricostruzione della dignità delle mani, soprattutto i letterati coinvolti personalmente con la terra, prendendo un impegno a fare spazio alla parola dei contadini in prima persona, andando loro incontro per imparare finalmente da loro la dignità segreta della terra e delle piante; il profondo sollievo fisico e spirituale del sudore; la salubrità e la gioia del prodotto lavorato con l’amore e il timore, che sono da sempre i due sentimenti cardinali dell’azione contadina. Per imparare dagli ultimi contadini di antica tradizione che della terra tutto è nobile e che essa dona preziose ricchezze all’uomo.
“La terra è oro ”/“La terra è una maledizione”, era il bipolo intrinsecamente dialettico che ricorreva fra le massime nelle famiglie contadine.
Il primo dei due corni era esclamazione significante la benedizione del raccolto e della sicurezza alimentare. L’oro del Sole, l’oro del grano, l’oro del cibo sano e l’oro di una salute solida: tutti collegati dall’evento unico della fotosintesi clorofilliana.
L’altro corno era esclamazione volta a sottolineare uno dei modi in cui la terra si rivelava al suo curatore agricolo: nel modo del “giuramento”, anzi è nominato solo l’ultimo dei tre momenti di un giuramento del quale si tace i primi due, per i quali si entrerebbe nelle scelte religiose personali.
La struttura di questo modo della comunicazione è così riassunta da G. Agamben in: “Il sacramento del linguaggio…”:

“La struttura del giuramento presenta dunque tre elementi: «un’affermazione, l’invocazione degli déi a testimoni, e una maledizione rivolta allo spergiuro» (AGAMBEN 2008b: 43). […] ciò che è in questione nel giuramento è lo stesso potere significante del linguaggio, il legame che unisce le parole con le cose, «cioè il logos come tale»

L’essere una maledizione è dunque il destino che la Terra riserva allo spergiuro, a uno cioè che è venuto meno al patto: alla fiducia e alla cura per lei, non dunque in assoluto a ogni uomo che si cura della terra. E poiché in ogni patto o giuramento ciò che ne va è il legame fra le parole e le cose ecco che allora la maledizione che la terra diventa non fa altro che palesare il blocco, il cessare di quella relazione fra l’uomo e il suo oro: il raccolto, i frutti, lì dove la terra si configura come la sua punizione.
E’ noto difatti fra i contadini di tradizione, che la cura quotidiana del campo – una leale e inflessibile frequentazione, è il lavoro indispensabile per mantenere un rapporto intelligibile coi fenomeni della terra e con le loro conseguenze: l’osservazione continuativa dei dettagli, del suolo, dei colori delle foglie come dei tronchi e delle zolle… Essi parlano una loro lingua muta, fatta di stimoli tattili, visivi, odoriferi, e a volte anche sonori che il contadino impara a conoscere, a decifrare nella frequentazione attenta e a controllare con lo scambio continuo di tempo contemplativo con la terra.
Prima della “maledizione” in cui si muta la terra tutta per la mancata attenzione della cura, era stato invocato il Cielo degli dei/dee.

“Il nome del dio nomina e garantisce la giusta relazione fra le parole e le cose, mentre la maledizione indica lo spezzarsi di questa relazione, e quindi la debolezza costitutiva del logos. (AGAMBEN 2008b: 63).

Se il giuramento dalla parte dell’uomo indica le parole e il logos, e l’invocazione del dio le certifica, la terra invece contrae il patto parteggiando per le cose, i frutti. È per questo che se essa è una maledizione significa che essa ha scardinato il patto convenuto a causa di una slealtà.
Dunque solo per uno spergiuro la terra è davvero una maledizione.
E i cittadini tutti sono spergiuri, come anche gli intellettuali, poiché la stragrande maggioranza degli abitanti della città e dei libri non si cura della terra nonostante ne ricerchi e ne consumi i frutti. (E se pensassimo a istituire un sacerdozio della terra?)

Il dio invocato nel giuramento è l’evento di linguaggio stesso, in cui parole e cose indissolubilmente si legano: «Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento, in cui il logos (il parlante nel logos) s’impegna ad adempiere la sua parola, giura sulla sua veridicità, sulla corrispondenza fra parole e cose che in esso si realizza» (AGAMBEN 2008b: 63).
(AGAMBEN, Giorgio (2008b), Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza.)
Quello con la terra è perciò un altro nodo democratico originario dell’io col tu, alla pari con quello madre-figlio, in una relazione equa – il giuramento, il patto di cura – dove lo spirito divino viene invocato per rendere certa la potenza. Di qui anche la necessità del sacro e della festa, della presenza di un terzo-Altro che si ponga a celebrante della relazione di cura.
Non si parla mai delle feste per es. nella permacultura dei primi fondatori, quasi fosse questa modalità di agricoltura soltanto un ammasso ben architettato ed efficiente di espedienti tecnici, ma invece le feste agricole sono state nella cultura contadina il momento di celebrazione del patto. Che fosse per la semina o per il raccolto o per la purificazione, tutte quante erano il momento di introduzione veritativa di quel terzo-Altro nel patto di cura fra l’uomo e la terra, fra contadino e frutti, fra linguaggio e doni-cose. Per questo non solo occorrerà, suppongo, il recupero dalla cultura antica della terra di molte delle procedure “buone” per il “buon cibo” e la buona amministrazione dell’ambiente, ma anche quelle necessarie celebrazioni che facevano del contadino il vero sacerdote del campo. E direi anche che, nella festa, sia lecito che il contadino porti i segni della celebrazione, e porti le parole per riassumere l’anno e i suoi frutti, e che sia il contadino il nuovo soggetto di una dignità mai riconosciuta, in primo luogo dalla letteratura e di conseguenza dalla società dei cittadini. Non si faccia di nuovo l’errore di porsi come illuminati in giacca e mani inattive alla guida di quelli bisognosi di aiuto perché chini con le mani nella terra. Sono i cittadini globalisti bisognosi di aiuto non le provincie e le frange liminari di contadini. Sono le “mani sporche” dell’agri-cultore e i suoi patti di cura a pretendere il riconoscimento dell’onore e la posizione sociale di primi, e non più ormai le “mani pulite” dell’intellettuale. Non più da molto tempo ormai.
Al fine di questo tentativo (non so quanto riuscito), di ricucire fra orizzonti personali e orizzonti politici, vorrei portare a beneficio del discorso le parole di un poeta contemporaneo romano: “il rispetto e la cura, la visione, contemplazione e amore degli esseri è la nostra unica vera felicità. Il nostro ubi consistam… Se noi siamo buoni (e con essere buoni intendo che vediamo la bellezza di tutti gli esseri, la loro sacralità e intangibilità e li amiamo) ecco che non moriamo, perché ci siamo già distaccati da noi stessi, prima che si disgreghino i nostri elementi, e ci siamo uniti a tutti gli esseri, siamo uniti alla forma del tutto, alla forma che contiene tutte le forme, che non muore mai” (in Claudio Damiani: “Cieli celesti” Fazi Editore, Roma 2016.)

 

 


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